lunedì 16 maggio 2011

Machete

Machete
Azione / Splatter
(2010)



Ritorna Rodriguez con quello che da alcuni anni viene presentato come una bomba a orologeria, un cult già consacrato prima della sua stessa uscita: Machete. Un assalto all'arma bianca figlio dei b-movies e del pulp più trash in circolazione. A renderlo unico e tanto atteso è soprattutto Danny Trejo, al quale (finalmente!) spetta un ruolo da protagonista. È proprio la sua presenza fisica ad attrarre e magnetizzare: stazza imponente e scolpita (ma non troppo), tatuaggi in ogni dove, faccia butterata, baffoni e capelli lunghi, ghigno beffardo. Uno sgherro pericoloso, un vero e proprio latin thug. Il Corpo come centro di attrazione e luogo di potere, la figura del mito scolpita nella carne, un moderno Achille figlio di tempi cinici e bastardi. Il leader che guida le masse alla rivoluzione e che si erge sul nemico abbattuto. Trejo avrebbe incarnato ottimamente un ruolo così interessante, se solo avesse avuto alle spalle una regia migliore. Rodriguez si conferma (di nuovo) come un'ombra di Tarantino, inchiodato ai soliti clichè e ad uno stile fin troppo schematico e ripetitivo, incapace di re-inventarsi. La formula è quella già vista in passato, qui rimescolata con toni volutamente trash che purtroppo non fanno che sminuire quei (pochi) momenti tragici o epici. E non basta dichiarare apertamente che si tratta di un b-movie per giustificare la piattezza che, più o meno evidente, pervade l'intera pellicola. Quella che avrebbe dovuto essere un'escalation di violenze volta a coronare il trionfo della vendetta viene completamente sminuita, resta solo macelleria, divertente sì, ma niente di più. Trejo stesso, l'uomo-leggenda Machete, è altrettanto svilito, ridotto ad una macchina da guerra poco appassionata. L'esagerazione forzata si rivela anche nel cast, troppi personaggi che sembrano rubarsi la scena l'un l'altro, ridotti spesso a macchiette o caricature. Il divertimento c'è (ma non troppo, diverse sono le scene d'azione, finale compreso, decisamente scialbe) ma questo è abbastanza? Partendo dal presupposto che l'intenzione di Rodriguez fosse sfornare un storia fine a se stessa e volontariamente esagerata, fino a che punto questo può fungere da salvagente? È un eccesso che emoziona veramente poco, che sembra più mascherare una mancanza di idee interessanti, incasellate una dietro l'altra in una struttura debole e stantia. Solo io mi chiedo a cosa avremmo assistito se alla regia ci fosse stato Tarantino? E non parlo da fan sfegatato, ma da spettatore che si rende conto di come Rodriguez viva ormai sotto l'ala protettrice del fratello maggiore, andando avanti a spanne nella speranza di fare centro. Machete è un'occasione sprecata, che non si sgancia da una discreta sufficienza.

VOTO: 6

mercoledì 6 aprile 2011

Nel paese delle creature selvagge

Nel paese delle creature selvagge
Fantasy / Commedia / Drammatico
(2009)



Spike Jonze alle prese con il libro illustrato di Maurice Sendak “Nel paese dei mostri selvaggi”. Il nostro, vedovo dello sceneggiatore Charlie Kaufman, realizza una commedia fantasy dalle tinte fosche in cui enormi pupazzi bestiali e per l'appunto selvaggi rapiscono l'attenzione dello spettatore, incantato da questa strana alchimia di dolcezza infantile e istinto primordiale. Il protagonista Max è un bambino vivace, forse troppo. La sorella maggiore è abituata a stragli alla larga, dedicandogli al massimo qualche sguardo pietoso. Il padre è assente e la madre troppo presa dal lavoro per occuparsi di lui. Max, durante un eccesso di euforia, arriva addirittura a morderla, scatenandone un'ira quasi schifata. Fugge di casa e dopo uno straordinario viaggio in barca approda su un'isola abitata da mostruose creature, alle quali si presenta come un re. Viene accolto dalla tribù, che su proposta di Max inizia a costruire un regno dove tutti sarebbero vissuti assieme, tranquilli e felici. Ma le cose non andranno così. Il gruppo è un ritratto famigliare di Max, il quale a sua volta è riflesso in Carol, il più infantile e pericoloso nei sue eccessi d'ira. La madre, traslata in KK, rappresenta la componente più matura ma ancora incompleta, incapace di fronteggiare le sfuriate di Carol, dinnanzi alle quali preferisce voltare le spalle e fuggire. La sorella e il suo ragazzo (Judith e Ira) seminano discordia, rispecchiando una fase adolescenziale di insicurezza e incapacità di comprendere appieno le situazioni relazionali in cui ci si trova coinvolti. Alexander è così docile da non essere mai preso in considerazione, è il Max in cerca di comprensione, mentre Bernard è un burbero toro sempre sulle sue, cioè il Max più introverso, due figure estreme che proprio per questi comportamenti eccessivi sono isolate nel gruppo (e che se fuse darebbero il lunatico Carol). Durante la convivenza egoismi e infantilismi destabilizzeranno i rapporti fino a portare Max alla soluzione estrema dell'esilio, in un finale in cui un'importante fase di maturità sboccia in tutti. Un'ottima fotografia incornicia scenografie fiabesche; deserti digitali e boschi si rivelano tanto meravigliosi quanto insidiosi, in perfetta sintonia con le proiezioni mentali del giovane Max, che, abituato a isolarsi nelle sue avventure, arriva a viverle con tale intensità da renderle palpabili. La colonna sonora, composta da Karen O and the Kids, contribuisce notevolmente a mantenere l'atmosfera fanciullesca. Un viaggio onirico, un'avventura di formazione vissuta in bilico tra il gioco e il pericolo, l'infanzia che lotta con fauci e artigli.
Per quanto è stato detto fino ad ora sembrerebbe un film veramente entusiasmante e ricco di spunti. In realtà mi ha detto veramente poco, seppur magnificamente realizzato a livello visivo, seppur commovente e divertente nell'insieme, non è mai decollato, non mi ha mai realmente emozionato, mi ha fatto lo stesso effetto di uno stupendo giocattolo che una volta scartato annoia dopo pochi minuti. È potenzialmente interessante sotto molti aspetti, ma solo potenzialmente. Non bastano l'atmosfera fiabesca (ma non troppo) o i costumi bestialmente teneroni o le bizzarrie digitali a lasciare a bocca aperta. Resta pur sempre un film particolare e non mi sento di sconsigliarne la visione, ma non riesco nemmeno a unirmi agli entusiasti che sono riusciti a emozionarsi.

VOTO: 5,5

giovedì 6 gennaio 2011

American: the Bill Hicks story

American: the Bill Hicks story
Documentario
(2010)



Quando si parla di Stand-up Comedy è impossibile non pensare a quello che, a distanza di quasi vent'anni dalla sua morte, è considerato uno dei maggiori comici di sempre: Bill Hicks. Un grande sognatore ma anche icona dell'eccesso, dotato di una fortissima carica irriverente e corrosiva che spesso sfocia in escandescenze isteriche. Per condividere il suo idealismo c'è una sola strada ed è a senso unico: assistere per prima cosa all'esponenziale annientamento di tutte le convenzioni della nostra quotidianità, ma soprattutto di quei valori vuoti e retorici con cui i governi da sempre indottrinano i propri cittadini, in nome di guerre e autoritarismi che negano ogni logica e ogni libertà di gestire la propria vita se non entro folli schemi autodistruttivi e insensati. Solo dopo questa escalation di violenza, strabiliante e lucidissima, subentrano i desideri speranzosi di Bill, che torna a riappacificarsi con il genere umano. Un personaggio sempre in bilico tra misantropia e una sorta di francescanesimo moderno. Le sue critiche spietate e velenose si abbattono sullo stile di vita comunemente adottato, in cui monotonia, egoismo e mediocrità prendono il sopravvento, generando veri e propri mostri. Colpisce furiosamente ogni simbolo di decadenza contemporanea, tanto governi, eserciti e nazionalismi quanto religione, propaganda mediatica e marketing pubblicitario. È proprio questo bizzarro connubio tra razionalismo, con cui falcia ogni suo demone, e sognante idealismo a rendere tanto esilarante e strabiliante Hicks. I suoi spettacoli rapiscono dalla prima all'ultima battuta, ogni istante è una molla che si tende ed esplode in fragorose risate, senza tempi morti. E non sono solo le sue idee a renderlo unico, ma anche una tecnica elaborata e rielaborata negli anni che sfrutta ritmi, tempi e accenti calibrati alla perfezione, nonché una mimica e una gestualità ipnotiche e perfettamente accordate con il testo. Una bomba a orologeria.



Per conoscere meglio il personaggio e la sua formazione il documentario “American: the Bill Hicks story”, uscito il 14 Maggio 2010, è quanto di più completo si possa trovare in circolazione. Girato da Matt Harlock e Paul Thomas, racconta la vita di Bill dall'infanzia alla morte, avvenuta il 26 Febbraio 1994 a causa di un tumore al pancreas. Gran parte del documentario è stato costruito come una sorta di fumetto digitale realizzato con fotografie modellate su personaggi virtuali, in un collage perfettamente riuscito. Un'ora e quaranta scorrevolissima alla quale fa da sfondo un'ottima colonna sonora, per la maggior parte composta da pezzi dallo stesso Hicks. Folgorato da Woody Allen, fin da ragazzino sa quello che avrebbe voluto fare nella vita: il comico. Veramente impressionante e ammirevole la tenacia con cui anno dopo anno si esercita e continua ad esibirsi ovunque possibile, e non solo agli esordi ma anche dopo il successo riscosso nel 1984. Sempre on the road, arrivò a fare tour che lo impegnavano fino a 300 giorni consecutivi. Il Bill Hicks che conosciamo noi è quello post-1988, quando smise una volta per tutte con droghe e alcool. È in questo periodo che la sua tecnica migliora notevolmente e le sue performances lasciano sempre più spazio a passaggi impegnati, tentando inoltre di veicolare il suo ormai celebre messaggio di fratellanza universale. Estremamente esemplare anche la forza emotiva con cui affronta la malattia, consapevole che il sipario sarebbe calato molto presto. Senza perdere coraggio né lucidità prosegue con i suoi spettacoli, non lasciando presagire nulla nemmeno ai familiari. Si ritira pochi mesi prima della morte e vive sereno fino alla fine dei suoi giorni. Un'altra notevole caratteristica di questo documentario sta nelle intense emozioni che riesce a suscitare senza scadere nella solita retorica da quattro soldi o in pacchiani momenti strappalacrime, cosa che Bill molto probabilmente avrebbe detestato. Il titolo “American” è spiegato verso il finale, quando l'amico Kevin Booth definisce Hicks come un patriota: “Faceva quello che fanno i veri americani e i veri patrioti: metteva in discussione il governo. Ed è questo che significa essere patrioti: mettere in discussione il potere”. Non so fino a che punto si possa definire Hicks un “patriota”, considerando anche il nichilismo con cui lui stesso svuotava simili concetti, ma si può considerare un uomo che a modo suo ha creduto nell'american dream per poi spogliarlo, mettendone a nudo tutte le falsità su cui è stato costruito e che da sempre abbagliano i cittadini statunitensi. Il suo essere americano è stata la sua essenza e in qualche modo anche il suo limite; la fama è arrivata in ritardo soprattutto a causa di quell'apatico pubblico di cui spesso si lamentava, incapace di assimilare una proposta troppo innovatrice e radicale (e lo show del 1990 al West End di Londra, così come il successivo tour internazionale in paesi anglofoni confermarono questa sua opinione riguardo agli spettatori americani). È però anche difficile pensare a un Hicks inglese o australiano; non sarebbe stato lo stesso Hicks e probabilmente non sarebbe mai esistito lo stesso grande comico.
Consiglio quindi a chiunque di procurarsi questo documentario, testimonianza e ricordo di un uomo che ci è stato strappato troppo presto. Non solo un comico immenso, ma anche una persona immensa.
It's just a ride.

Film: http://www.fileserve.com/file/bhQzHUa/American.The.Bill.Hicks.Story.2009.DVDRip.XviD-EPiSODE.avi
Sottotitoli: http://www.comedysubs.org/2010/12/23/american-the-bill-hicks-story-2010/

mercoledì 5 gennaio 2011

Death in June - All pigs must die

Death in June - All pigs must die
Neofolk / Industrial / Noise
(2001)



A detta di molti l'inizio della fine per Douglas Pearce, il canto del cigno per l'enigmatico padrino del neofolk. Pubblicato nel 2001, All Pigs Must Die prosegue la collaborazione con Boyd Rice iniziata nei primi anni novanta (e terminata nel 2004 con “Alarm Agents”), che contamina diverse tracce con il suo tocco industrial cacofonico e funereo. La struttura dell'album, almeno per la prima parte, è molto simile a quella del periodo d'oro tra “Brown Book” e “Rose Clouds of Holocaust”, costruita sul binomio chitarra acustica/voce con qualche contorno a incorniciare il tutto. Andreas Ritter è uno degli ospiti dell'album, questa volta alle prese con l'accordéon, uno strumento francese molto simile alla fisarmonica che ci accompagna per alcune canzoni. Mischiandosi all'acustica, che a differenza del passato si presenta con un tocco molto più deciso, ritmato e riverberante, crea un tessuto sonoro molto marcato, sul quale la voce di Pearce si adagia alla perfezione. Rispetto ai lavori dei primi anni novanta, probabilmente a causa dell'influenza di Rice, la Morte in Giugno ha guadagnato una maggiore aggressività che si distacca molto dalle sonorità introspettive e delicate di vent'anni or sono. Fino alla sesta traccia (“Flies have their house”) ci troviamo quindi di fronte a un classico neofolk-sound, segnato da un incipit quasi scanzonato (“All pigs must die”) ma comunque efficace, per poi passare a momenti più paranoici (“Tick Tock” e “We said destroy II”) ed altri decisamente malinconici (“Disappear in every way” e “The enemy within”). È proprio questa prima parte la migliore dell'album, che vanta alcuni pezzi molto validi (la title-track e “The enemy within”) degni del miglior Pearce. Quando il nostro, assieme al fidato Ritter (e senza dimenticare il fedele trombettista Campbell Finley), punta su melodie più malinconiche dalle tinte grigiastre e decadenti, riesce a dare il meglio di sé. Da “With bad blood” è Rice che, dopo aver fatto capolino in “Tick Tock” e “Flies have their house”, prende in mano le redini fino alla conclusione dell'album. La seconda parte stride con quella precedente ed esplode in soluzioni sonore cacofoniche e deliranti, proseguendo con un distorto industrial/noise dai toni psicotici e sanguinari. Tra urla filtrate, grugniti di maiali dilaniati, sussurri e riverberi metallici l'album scorre fino alla fine lasciando un po' il tempo che trova. A parte la discreta “With bad blood” l'estremismo sonoro di Rice tende a stancare presto, riuscendo comunque a mantenere una costante atmosfera claustrofobica e angosciante. Da una parte abbiamo quindi il vecchio Pearce che ancora ci diletta con soluzioni di vecchio stampo, seppure sfruttando una nuova ironia e una proposta sonora rivisitata, dall'altra Boyd Rice che, sempre fedele al NON-sound, fa sanguinare le orecchie dell'ascoltatore col suo terrorismo sonoro intransigente. In definitiva un discreto album a due facce, comunque consigliato piuttosto che sorbirsi la solita band-clone monocorde.

VOTO: 7

Tracklist:
1. All pigs must die
2. Tick Tock
3. Disappear in every way
4. The enemy within
5. We said destroy II
6. Flies have their house
7. With bad blood
8. No pig day (some night we're going to party like it's 1969)
9. We said destroy III
10. Lords of the sties
11. Ride out!

martedì 4 gennaio 2011

Rome - Berlin

Rome - Berlin
Apocalyptic Folk / Martial / Retrò
(2006)



Quando si dice un piccolo gioiello mai il paragone potrebbe essere azzeccato come in questo caso. Berlin è stato il debutto dei Rome, ormai diventati uno dei gruppi più importanti della scena neofolk, sommersa da quasi cinque anni a questa parte da una release dietro l'altra. Si parla di neofolk ma il termine calza stretto, le sonorità proposte spaziano dall'apocalyptic al martial industrial, il tutto contaminato da una componente dark e retrò che è andata un po' scemando negli ultimi album. Questo mini e il primo full-lenght “Nera” sono inoltre caratterizzati da una forte venatura classicheggiante, che li ha resi a mio parere decisamente più interessanti delle successive produzioni.
Berlin è una tormentata storia d'amore vissuta in una città in rovina, è il desiderio capace di scuotere gli amanti dalla desolazione che li circonda. Berlin è il simbolo di un'epoca decadente, è il racconto di cameratismi traditi. Berlin è iprite che soffoca interi popoli, è zyklon B che si propaga per tutta l'Europa. Berlin è una stupenda stele marmorea che abbaglia ogni atrocità. Questo è quello che vedo nei soli venti minuti dell'album, un affresco malinconico e a tratti brutale, ma raffinato, di un tetro periodo storico contrastato dalla vitalità e dalle passioni di uomini qualunque.
“Like Lovers” ci accompagna indietro nel tempo con ritmi marziali e il sentore di un bombardamento incombente. La guerra totale si avvicina, presagi di stermini e violenze sono alle porte. Si sussurra, non si parla più, mentre loro possono urlare e marciare impettiti, impartendo ordini. Un suono flebile e sempre più smorzato introduce “The Orchards” e mai il dolore e la disperazione sono stati così sublimi. Mentre rimbombano lontane le campionature distorte di grida e sussurri, l'incedere marziale e lo stupendo giro di chitarra incorniciano la profonda voce di Jerome. Crepuscoli estivi, frutteti, scritte nere su muri bagnati, il torpore del sangue; visioni viscerali e drammatiche scatenate una dietro l'altra accrescono il sentore di tragedia, che ci pervade completamente. “Un Autre Vision” ci riporta alle sonorità marziali accennate all'inizio, che esplodono nei rabbiosi ordini militari ripetuti fino alla fine della traccia, spazzando via il limpido tessuto sonoro costruito sullo sfondo. “Clocks” e “Wake” estremizzano la componente cacofonica, oscurando del tutto ogni bagliore di speranza; la tragedia si consuma, senza gloria né onore. Chiude “Herbstzeitlose”, le lacrime si cristallizzano sulle note di un pianoforte, che ridondante e lento riepiloga l'orrore appena attraversato e che sempre si ripresenterà. Disperazione, tradimento e guerra mai si potranno abbandonare, cinici e fedeli compagni di viaggio che accompagneranno l'uomo nelle ceneri dei secoli.
Un piccolo capolavoro in bianco e nero, folgorante e ammaliante.

In the blue dawns of summer black writing on wet walls
Let us float in a stupor of blood...


VOTO: 8+

Tracklist:
1. Like Lovers
2. The Orchards
3. Un Autre Vision
4. Clocks
5. Wake
6. Hebstzeitlose

Carbon Based Lifeforms - Hydrophonic Garden

Carbon Based Lifeforms - Hydrophonic Garden
Ambient / Chill-out / Acid
(2003)



I Carbon Based Lifeforms, duo svedese nato nel 1996 e composto da Johannes Hedberg e Daniel Sagerstad (né Ringström), rappresentano la punta di diamante della scena ambient elettronica, assieme al compositore connazionale Magnus Birgersson e il suo progetto Solar Fields. Ci troviamo di fronte al sodalizio moderno tra Brian Eno e Future Sound of London, sommersi da suoni sintetizzati che lentamente ci cullano nell'etere. Non da meno è l'influenza degli imprescindibili Autechre, ma è abbastanza scontato sottolineare la straordinaria importanza di Incunabula che dal 1993 è un punto di riferimento per tutti gli amanti dell'elettronica, soprattutto quando si ha a che fare con certe sonorità estremamente atmosferiche e oniriche. Non è facile registrare un album ambient senza risultare noiosi o troppo ripetitivi, c'è sempre il rischio di tirarla per le lunghe elaborando melodie abbozzate e banali, lasciando all'ascoltatore il dubbio di avere avuto a che fare con dilettanti della campionatura che si sono divertiti a giocherellare con sintetizzatori e sequencer. Hydrophonic Garden si mantiene invece su buoni livelli pur sforando un po' troppo nei tempi (poco più di un'ora e un quarto), fluttuante attraverso onde elettromagnetiche che ci abbandonano in balia di irresistibili correnti. A parte alcuni momenti sottotono (“Tensor” e “Artificial Island”) vanta dei picchi veramente degni di nota, come il pezzo d'apertura “Central Plains” e “MOS 6581”, la delicata “Exosphere” e la finale “Refraction 1.33”. Una trasmigrazione continua in Shangri-La naturali e artificiali, si spazia dall'immaginario di metropoli futuristiche a campi lunari siderali, attraversando sterminate distese artiche sulle quali si riflettono le danze di supernove agonizzanti. Il connubio tra terra e galassia implode in rilassanti visioni dalle tinte glaciali, proiettandoci verso l'immensità astrale. I suoni si impastano in sinergie a tratti lisergiche che scatenano percezioni ovattate, mentre la forza di gravità cede. Un trip visionario e rilassante condito da passaggi anfetaminici e beat ipnotici, una discesa negli sconfinati abissi della nostra mente.
Introspettivo e sidereo.

VOTO: 7+

Tracklist:
1 Central Plains
2 Tensor
3 MOS 6581 (Album Version)
4 Silent Running
5 Neurotransmitter
6 Hydroponic Garden
7 Exosphere
8 Comsat
9 Epicentre (First Movement)
10 Artificial Island
11 Refraction

mercoledì 1 dicembre 2010

Le ultime parole di Mishima

Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo:
Le ultime parole di Mishima
a cura di Emanuele Ciccarella

Intervista
(2001)



Pochi giorni fa, il 25 Novembre, era il quarantesimo anniversario della morte di Yukio Mishima. Il 25 Novembre 1970 il celebre scrittore giapponese si tolse la vita con il tradizionale rito samurai del seppuku. Si squarciò il ventre e venne poi decapitato da un seguace, membro del Tatenokai. Ancora oggi Mishima, drammaturgo e scrittore, esteta culturista e difensore delle tradizioni imperiali, è un personaggio molto complesso, sfaccettato, contraddittorio. La famosa maschera non è stata completamente deposta, lasciando aloni di incomprensione che difficilmente si potranno chiarire. L’ecletticità e l’ossessione per la purezza e per il mito della figura imperiale si sono diramate in molteplici campi, dalla letteratura alla drammaturgia passando per un vero e proprio culto del corpo e del sangue, che culminò nel suicidio.
Tra saggi e articoli si possono leggere svariate interpretazioni riguardanti il pensiero di Mishima, spesso esageratamente negative e faziose. Non era un libertario né un socialista, ma sicuramente non era nemmeno un fascista o un nazionalista nel senso comune del termine. La sua visione pseudo-politica (perché qui non si parla di politica, è un argomento lontano dall’autore) era fortemente trascendentale, oscillante tra classicismo e romanticismo, carica di ideali di purezza e di immagini limpide ed affascinanti. Come lui stesso dichiara nell’intervista di Furubayashi, l’imperatore “Non [è] un signore feudale in quanto figura gerarchica della storia, ma come simbolo della reagalità” e ancora “Quello che io intendo per sistema imperiale è qualcosa di molto diverso da quello che lei vede come un sistema monarchico assolutista utilizzato dalle forze politiche”. Ecco perchè mi sento di consigliare questo libricino, comprendente due interviste per poco più di 120 pagine; si entra in contatto diretto con l’autore, senza dover decifrare interpretazioni di critici che filtrano attraverso la propria ottica il personaggio di Mishima. Non sto dicendo che i testi critici sull’autore non siano validi, anzi alcuni sono decisamente interessanti, ma è utile ricercare delle fonti dirette per non mettersi in testa strane idee e non partire prevenuti.
“Le ultime parole di Mishima” è diviso in due parti. La prima intervista è di Furubayashi Takashi, critico di formazione marxista fortemente avverso agli ideali dell’autore ma irresistibilmente attratto dal suo stile straordinario, tanto da dichiarare “[…] penso che invece di contare quelli [libri di Yukio Mishima]che ho, sarebbe molto più veloce contare quelli che non ho. […] ho così tanti suoi libri della sua prima edizione, che un libraio mio conoscente mi dice sempre di volerli acquistare tutti per un milione di yen”. L’intervista è molto interessante e si snoda in diversi argomenti: letteratura, politica, dopoguerra giapponese, teatro, attualità, concezione dell’Assoluto, erotismo e altro ancora. Furubayashi non è un Fabio Fazio accondiscendente, ma incalza Mishima con una sincerità a tratti divertente, cercando di scavare a fondo e confrontandosi con l’autore senza farsi suggestionare, pur mantenendo il dovuto rispetto. Il confronto si mantiene su alti livelli, entrambi sono molto preparati su tutte le tematiche affrontate. Un punto di contatto tra i due si riscontra nel dramma “Giovani, rinascete!” interpretato da Furubayashi come un quadro della generazione post-bellica. In realtà Mishima lo scrisse come storia d’amore ambientata in un mondo precario, ma nonostante le divergenze entrambi si sentono legati alla rappresentazione di un momento storico che hanno attraversato assieme (sono coetanei). L’intervista è stata fatta pochi mesi prima della morte di Mishima; è incredibile la tranquillità d’animo con cui affronta l’ipotesi dell’intervistatore, secondo cui le manifestazioni militariste del Tatenokai possono essere strumentalizzate. Mishima risponde “[…]Stia a guardare quel che farò. [ride]”. È evidente la consapevolezza del gesto suicida, programmato e rispettato senza indugi.
La seconda intervista è di Kobayashi Hideo, eminente critico nazionalista. Le domande sono legate principalmente all’ambiente letterario e artistico, spesso è l’intervistatore a discorrere del più e del meno. Siamo nel 1956, anno in cui fu pubblicato “Il padiglione d’oro”, universalmente riconosciuto come il capolavoro di Mishima. Molto interessanti gli scambi di opinione sullo stile fortemente evocativo dell'autore, capace di rendere concrete e palpabili immagini di rara bellezza. Come già detto gli argomenti trattati sono limitati al campo letterario, ma si tratta comunque di un’intervista interessante in cui Kobayashi manifesta una forte attrazione per questo “diavolo pieno di talento”.
Se volete farvi un’idea sul Mishima uomo e il Mishima scrittore procuratevi questo libro, decisamente stimolante e curioso.

mercoledì 24 novembre 2010

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna

Robert A. Heinlein - Il terrore dalla sesta luna
Fantascienza
(1951)



Robert Anson Heinlein: un colosso della fantascienza. Probabilmente il numero uno. Indimenticabili capolavori come “Fanteria dello spazio” o “Straniero in terra straniera” hanno segnato un limite, un picco che poche volte è stato ragguagliato. Non si tratta di un autore con una fantasia sconfinata, ma il suo stile inconfondibile ha dato vita a romanzi straordinari. Il concetto di “dare vita” ad un romanzo in questo caso non è una metafora, Heinlein è capace di rendere concrete, palpabili e soprattutto verosimili le sue storie. Ricordo ancora che leggendo “Universo (Orphans of the sky)” mi sentivo completamente immerso nella narrazione, nonostante la semplicità e la linearità dell'intreccio, immedesimato nel protagonista o nel mutante Joe-Jim a fluttuare per condotti o a contemplare l'infinità della galassia. Un altro grande romanzo. È passato quasi un anno da quella lettura e sentivo il bisogno di riprendere in mano un libro del maestro. Sia chiaro, non tutto quello che ho letto fino ad ora mi ha entusiasmato: “Sesta colonna” mi è parso un romanzo poco più che discreto, “I figli di Matusalemme” non va oltre una scarsa sufficienza. E devo dire che anche questo “Il terrore dalla sesta luna” (“The puppet masters”) mi ha lasciato parecchio perplesso. Sicuramente partivo con aspettative troppo alte. Non è uno dei primissimi romanzi di Heinlein ma si può comunque inserire nel primo periodo; siamo quindi di fronte ad uno stile ancora acerbo e in fase di elaborazione.
L'idea di base diventerà un classico, influenzando altri scrittori tra cui Jack Finney e il suo celebre “L'invasione degli ultracorpi (The body snatchers)”. Una razza aliena parassita invade la terra, soggiogando gli esseri umani e annullandone la personalità. I Servizi Speciali indagano e pensano ad una controffensiva, mettendo in guardia il governo americano che però non mostra segni di preoccupazione; l'invasione è impercettibile. Solo quando la situazione inizia a degenerare vengono prese le prime misure drastiche, ma sembra che ormai non ci sia via di scampo.
Il romanzo è scritto in forma di rapporto redatto in prima persona dal protagonista, membro dei Sevizi Speciali. Un discreto incipit ci porta subito nel bel mezzo dell'azione, con i tre protagonisti al completo. Sam, il narratore e primo protagonista, è un uomo atletico e intelligente, logorato dal suo lavoro ma anche morbosamente attaccato ad esso. Mary è una donna coriacea ed affascinante, mentre Il Vecchio, capo dei Servizi Speciali, è un cinico vegliardo estremamente calcolatore, capace di suscitare grande simpatia nonostante l'ostilità che irradia da ogni poro. È il personaggio meglio caratterizzato, estremamente credibile e divertente. I loro rapporti lavorativi si intersecheranno con quelli personali e sentimentali. Quando il governo prende atto del pericolo è necessario che venga studiata una campagna di liberazione; da questo momento seguono una serie di tentativi non proprio coinvolgenti e traballanti, fino a giungere ad un finale interessante e ben elaborato. Il grosso limite di questo libro risiede infatti nel corpus centrale, in cui vengono ripetuti una serie di espedienti e di situazioni già viste per arrivare al finale.
Fondamentale la concezione di Heinlein riguardo l'individualismo, la conservazione della personalità di ogni soggetto è la chiave di volta del genere umano. L'annullamento emozionale perpetrato dai parassiti, anche se (come traspare nel finale) può condurre al nirvana, alla pace dei sensi, è in antitesi con la natura dell'uomo. Perché l'uomo è anche contrasto, tensione, negatività, a volte violenza e distruzione.
Un discreto romanzo di fantascienza, non molto coinvolgente ma abbastanza scorrevole e costruito su idee interessanti.

VOTO: 6,5

lunedì 22 novembre 2010

Franco Battiato - Gommalacca

Franco Battiato - Gommalacca
Elettronica / Pop / Sperimentale
(1998)



Gommalacca, ventesimo album di Franco Battiato, è il punto di partenza per le nuove sonorità proposte dall'artista siciliano. Al suo stile cantautorale, contraddistinto da un ermetico stream of consciousness e dal tono aristocratico (a volte odioso) si aggiungono componenti più moderne di contaminazione rock ed elettronica. Scritto a quattro mani con Manlio Sgalambro (autore dei testi) l'album si rivela decisamente ibrido e sperimentale, senza che però vengano raggiunti risultati eclatanti (al di là di copie vendute e premi vinti). Il limite principale risiede nelle melodie e nelle strutture spesso troppo facilotte e ruffiane che, nonostante la presenza lisergica di chitarre elettriche e sintetizzatori, risultano troppo scontate e fastidiose.
“Shock in my town” è uno dei pezzi migliori dell'album, in cui campionature e componente ritmica mantengono un equilibrio incalzante che esplode nel ritornello. Le tinte plumbee creano un'atmosfera allucinogena e futuristica, resa palpabile dai versi cantati con voce filtrata. Un Battiato in massima forma. “Auto da fé” parte insopportabilmente scanzonata, per poi riprendersi nelle strofe ed ammosciarsi nel ritornello, mentre “Casta diva” (dedicata a Maria Callas) alza leggermente il livello, grazie ad un pathos drammatico accentuato dalle campionature che riprendono la stessa Callas e la sua originale Casta Diva. Sullo sfondo di ritmi tribali e canti aborigeni si apre “Il ballo del potere”, travolgente ma non troppo, rovinato verso il finale da una voce fuori campo che descrive in inglese il T'ai Chi e che conferisce all'intero pezzo una ridicola contaminazione new age. Segue “La preda”, che continua sulla falsariga di quanto già sentito, esente però dalle esplosioni sonore solitamente legate al ritornello. È il pezzo passionale del lotto, che mescola tenerezza ad aspro erotismo, ma senza mordente. Il grosso difetto di questo album sta nelle invadenti sonorità pop inserite quasi ovunque, che purtroppo rovinano delle canzoni potenzialmente interessanti. Ci pensa “Il mantello e la spiga” a risollevare la situazione, grazie alle tonalità austere e apocalittiche. Un senso di inesorabilità assale l'ascoltatore, i momenti di calma sono costruiti su una base grigia e desolante, che sfocia in cacofonie elettriche ed elettroniche mentre la voce, con il suo timbro bionico, si fa sempre più tagliente. La seconda strofa è introdotta da un verso terribilmente impassibile, che recita “Come sempre le foglie cadono d'autunno”; una semplicità disarmante in grado di sprigionare una potenza evocativa straordinaria. “È stato molto bello” è il terzo ed ultimo pezzo degno di nota, la cui calma cristallina si rivela estremamente introspettiva ed emozionante. Con “Quello che fu” e “Vite parallele” si torna alla deriva, ma è con la conclusiva “Shakleton” (dedicata all'omonimo, celebre esploratore) che si sprofonda nell'abisso. Traccia peggiore dell'album (nonostante le discrete soluzioni melodiche), descrive con un tono tra il recitativo e il cantato la spedizione fallita di Shackleton e del suo equipaggio attraverso l'Antartide. I dati biografici vengono sputati da Battiato come se lo stessero ingozzando, creando un effetto ridicolo che rende la canzone inascoltabile.
Siamo quindi di fronte ad un album con buone potenzialità sfruttate male, soprattutto a causa della semplicità e ripetitività di almeno una metà dei pezzi. Spiccano alcune canzoni degne del miglior Battiato e un aborto messo in chiusura. L'intento di immergersi nel mondo contemporaneo attraverso un viaggio mescalinico e meccanizzato è ammirevole, purtroppo il risultato non è dei migliori. Nell'insieme si raggiunge comunque la sufficienza, la pacchianeria è sfiorata solo in certi passaggi e nel complesso l'album è scorrevole e vanta i suoi picchi. Ma non si può parlare di un buon lavoro, né tanto meno di un capolavoro.

VOTO: 6

Tracklist:
1. Shock in my town
2. Auto da fé
3. Casta diva
4. Il ballo del potere
5. La preda
6. Il mantello e la spiga
7. È stato molto bello
8. Quello che fu
9. Vite parallele
10.Shakleton

sabato 20 novembre 2010

PTU

PTU
Thriller / Noir
(2003)



Un Johnnie To più minimalista del solito, che ammorbidisce anche il tocco noir per costruire un elegante thriller metropolitano. Girato nei ritagli di tempo tra una commedia e l’altra (impiegando quasi due anni per concluderlo), PTU (Police Tactical Unit) rappresenta un unicum nella filmografia del regista. Tutto si svolge nell’arco di una nottata nei vicoli desolati di Hong Kong: il sergente Lo (il solito Lam Suet) perde la pistola d’ordinanza durante il rocambolesco tentativo di arrestare una giovane gang locale. La PTU, capitanata dal sergente Ho (Simon Yam), giunge sul luogo dell’incidente; per evitare che i superiori vengano a sapere dell’accaduto, Lo chiede l’aiuto di Ho per recuperare la pistola ed evitare di perdere la promozione. Le vicende dei protagonisti si intersecano inconsapevolmente a scontri tra clan rivali.
La sensazione di uno scontro a fuoco imminente o di un improvviso capovolgimento di scena, tipica del To a cui si è abituati, è qui sostituita da una calma e una linearità che non permettono alcuna sfuriata. L’azione lascia spazio ad uno svolgimento molto più intimo ed astratto.
Lam Suet è il solito impacciato, con la testa (s)fasciata e la sigaretta perennemente tra le labbra, rappresenta il soggetto più scapestrato, incapace di farsi rispettare. Nonostante questo tenta sempre di imporre la propria autorità, con conseguenze spesso ridicole e umilianti. Il sergente Ho è invece più austero e rigido, dirige una squadra e non si fa scrupoli ad abusare del proprio potere pur di ottenere gli indizi necessari. Simon Yam si cala perfettamente nella parte, grazie alla sua immagine severa ed un carisma magnetico che ricordano molto il Kitano più impassibile. Abbiamo anche una terza figura poliziesca, l’ispettrice Leigh (Ruby Wong) , incaricata di supervisionare il lavoro degli altri colleghi. Ostenta una rigorosità a volte eccessiva che lascia trasparire una certa insicurezza, dettata probabilmente dalla scarsa esperienza sul campo. Il guscio protettivo si spezza nel finale, mettendo in mostra la fragilità nascosta. I rapporti tra i protagonisti, seppur contagiati da inevitabili rivalità, raggiungono il cameratismo, senza che sfori nelle classiche manifestazioni machiste o in spacconate gratuite.



Altra protagonista è la città, il cui alternarsi di aree illuminate e zone d’ombra crea uno stupendo gioco di contrasti, valorizzato da una splendida fotografia. Le indagini notturne sono incorniciate da una colonna sonora vellutata, caratterizzata da melodici giri di chitarra che accentuano l’atmosfera solitaria della metropoli.
L’intreccio si risolve in un finale convergente, dove pianificazione e coincidenza si mescolano in quella che sarà l’unica scena d’azione, regalandoci la classica sparatoria da western contemporaneo tipica di To.
Una pellicola carica di pathos e dal sapore metafisico.

VOTO: 7,5